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Miti, leggende, simbolismi, personaggi...

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  • BigRoberta (IT1)BigRoberta (IT1) IT1 Post: 5,183
    modificato 31.01.2018
    leggenda irlandese
    IL POZZO DI CONNLA

    Tanti e tanti secoli fa, lungo la costa irlandese nel punto in cui le città di Golwaj e Clifden si congiungono, c'era una piccola capanna sperduta e disabitata. Chi mai l'avesse costruita era a tutti ignoto. Gli uomini si rifiutavano di abitare quel luogo dove il cielo era quasi sempre grigio e raramente rischiarato dal sole. Inoltre il vento freddo dell' Atlantico vi soffiava così forte che sembrava voler strappare le poche forme di vegetazione che riuscivano a sopravvivere.
    Ma un giorno una giovane donna, con il suo figlioletto appena nato, si rifugiò nella capanna. Si adattò alla solitudine del luogo e imparò a difendersi dal vento e dalle piogge. Vìveva cibandosi degli animali che il mare depositava ogni giorno sulle spiagge e bevendo acqua piovana. Insegnò al suo bambino ad amare quell'universo che a tutti era sembrato ostile.
    Il piccolo crebbe e diventò un uomo forte e saggio. Conosceva ogni aspetto dell'oceano: capiva anche dai segnali più insignificanti l'arrivo delle tempeste, percepiva la direzione delle correnti, coglieva nel colore e nelle trasparenze delle acque l'approssimarsi delle maree. Intuiva inoltre il significato delle nuvole in cielo.
    Ciò che lo affascinava di più era però il mormorio delle onde; in riva al mare si sentiva rapito dal suono che proveniva dall'oceano, a volte dolce, a volte violento, ma sempre ricco di armonia e di mistero. Un giorno decise perciò di andare verso l'ignoto oltre la riva. Con una piccola zattera si abbandonò alle onde del mare e incominciò a remare guardandosi intorno incantato: l'immensità dello spazio azzurro lo ammaliava.
    Dopo alcune ore di navigazione s'avvide con preoccupazione che stava per scatenarsi un uragano: la sua zattera non avrebbe potuto competere con le forze dell'oceano. Il giovane infatti lottò inutilmente contro le onde, che lo strapparono ai resti della zattera e lo inghiottirono.
    Fu trascinato nel fondo. Si trovò in un mondo calmo e tranquillo, dove strani esseri lo guardavano meravigliati. Infine la corrente, che diventava sempre più impetuosa, lo risucchiò verso un grosso pozzo che si trovava nelle profondità marine.
    Il giovane avvertì una strana sensazione; nel fragore delle acque, che cadevano nel pozzo, gli parve di udire un susseguirsi di espressioni. Erano tante parole nuove a lui sconosciute. Quanta dolcezza! E che suono meraviglioso producevano! Capì che le onde del mare gli parlavano e che egli ne comprendeva il messaggio.
    Durò un attimo quel viaggio misterioso. Poi si trovò di nuovo sulla sua spiaggia. Rivide le luci di sempre, ascoltò i rumori e gli echi a lui noti, risentì il canto degli uccelli. Guardò le onde del mare e vi scorse le tante forme di vita che ben conosceva: il polpo, l'aringa, la seppia. Di lontano intravide il delfino, la balena azzurra. Ma scoprì una cosa strana: era padrone, ad un tratto, di una gamma infinita di suoni e di parole. Con esse poteva descrivere l'universo che lo circondava. Pronunciò, per la prima volta, espressioni mai udite prima. Erano perfette. 
    La madre sentì la sua voce, corse verso di lui per riabbracciarlo e rimase per ore ad ascoltare il suo dire.
    Anche gli uomini e le donne che abitavano nei punti più lontani dell'isola lo sentirono e accorsero. Non comprendevano quel linguaggio, eppure il ritmo era così melodioso che ne furono affascinati: era nata finalmente la poesia.
    Ma essa è una ricchezza di pochi. Chi vuole possederla deve infatti riuscire ad arrivare nelle profondità dell'oceano, nel pozzo sottomarino di Connla.
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  • elena64 (IT1)elena64 (IT1) IT1 Post: 43

    Prezzemolina

    di Giambattista Basile

     

    C'erano una volta due sposi che abitavano in una bella casetta. Da una finestra si vedeva un orto circondato da un alto muricciolo. Nessuno vi aveva mai messo piede perché apparteneva a un'orca molto cattiva.
    Un giorno la moglie, che aspettava un bambino, guardando in quel pezzo di terra, scorse una bellissima aiuola seminata a prezzemolo. Vederlo e provarne un immediato desiderio fu tutt'uno. Aspettò la penombra della sera e furtivamente si calò nell'orto, colse una grande manciata di prezzemolo e scappò via. L'indomani fece lo stesso. Mangia oggi e mangia domani l’orca, che era golosissima di prezzemolo, si accorse che qualcuno ne stava portando via ogni giorno una bella quantità. Volle scoprire chi lo rubava e a sera perciò si nascose dietro un cespuglio.
    Ed ecco, sull'imbrunire, scendere di nuovo la donna che, appena giunta a terra, rimase terrorizzata nel vedere davanti a sé l'orribile orca.
    - Come ti permetti di rubare quanto mi appartiene? ­ gridò questa afferrandola per un braccio - Te ne pentirai! - Scusatemi, signora orca, perdonatemi - piangeva la povera donna. - Ho voglia di prezzemolo perché aspetto un bambino.
    - Se le cose stanno così - continuò la vecchia con lo stesso sguardo feroce di prima - prendine quanto ne vuoi. Ma dovrai darmi il bambino che ti nascerà.
    La donna, nella sua angoscia, promise tutto e scappò a casa. Di lì a poco nacque una bellissima bambina. Grande fu la meraviglia dei genitori nel vederle inciso sul palmo della mano un piccolo rametto di prezzemolo. Fu chiamata perciò Prezzemolina. Ma né la madre né il padre pensavano di mantenere la promessa, anzi l'avevano completamente dimenticata.
    Il tempo passava e Prezzemolina cresceva bella come il sole, la sua carnagione era simile a petali di rosa, i capelli biondi e lunghissimi, che la mamma le pettinava in due grosse trecce, sembravano raggi di sole.
    Ma un giorno mentre Prezzemolina, fattasi ormai grande, tornava sola dalla scuola, fu avvicinata dall'orca:
    - Bella bambina, - le disse tutta gentile - vuoi dire a tua madre che si ricordi di quello che mi deve dare?
    E Prezzemolina, di ritorno a casa, riferì:
    - Mamma, la vecchia che abita qui vicino dice di ricordarti della promessa fatta.
    La donna sentì un groppo al cuore e non rispose. Intanto l’orca prese ogni giorno l'abitudine di aspettare Prezzemolina e di ripeterle la solita frase. Alla fine la fanciulla che non ne poteva più di udire quelle parole, sollecitò la madre:
    - Dimmi almeno cosa devo rispondere.
    E la mamma, senza pensarci tanto, suggerì:
    - Quando la vecchia ti parla di nuovo della promessa, tu rispondile «Prendila quando vuoi».
    L'indomani all'orca che l'aspettava per ricordarle ciò che le era dovuto, Prezzemolina rispose come la madre le aveva detto.
    La vecchia non se lo fece ripetere due volte, afferrò la fanciulla e la portò via con sé. Poi la condusse nel bosco e la rinchiuse in una torre altissima senza porte e senza scale; soltanto su, in cima in cima, c'era una finestrina.
    Dalla finestrucola Prezzemolina faceva penzolare le magnifiche trecce in modo che l'orca poteva salire sulla torre reggendosi ai capelli, che cadevano per una lunghezza di venti braccia. E così quando voleva recarsi da lei la vecchia andava sotto la torre e gridava:
    - Prezzemolina, Prezzemolina, gettami le tue treccine.
    La fanciulla scioglieva le sue trecce e l'orca saliva su. Un giorno capitò che vicino alla torre passasse il figlio di un re. Udì nell'aria una dolcissima canzone e si fermò ad ascoltarla. Era Prezzemolina che passava il tempo facendo risuonare la sua voce. Il principe alzò gli occhi e da lontano scorse la fanciulla. Voleva raggiungerla; cercò la porta, le scale. Niente. Tentò di arrampicarsi, ma il finestrino era troppo alto. Infine ritornò al suo castello, senza poter dimenticare quella voce così dolce. Ogni giorno perciò si recava nel bosco per poterla ascoltare. Una volta, nascosto dietro un albero, sentì l'orca che giunta ai piedi della torre gridava:
    - Prezzemolina, Prezzemolina, gettami le tue treccine. Vide allora la fanciulla che lasciava cadere lentamente le bionde trecce e la vecchia che vi si arrampicava. Quando l'orca se ne fu andata, il giovane corse anch'egli ai piedi della torre e gridò:
    - Prezzemolina, Prezzemolina, gettami le tue treccine. Subito le trecce vennero giù e in un attimo il principe salì. I due giovani si guardarono incantati e il principe poté finalmente esprimerle il suo amore.
    - Vuoi essere la mia sposa? - le chiese infine. Prezzemolina, vedendolo così giovane e bello, pose le sue mani in quelle di lui e rispose:
    - Mi piacerebbe molto venire con te, ma non so come uscire di qui. Ritorna portando ogni volta un pezzo di corda, così annoderò una scala. Quando sarà abbastanza lunga, scenderò e tu mi porterai via sul tuo cavallo bianco.
    Decisero di vedersi ogni giorno al calar della sera, quando l'orca andava via. Poi Prezzemolina sciolse di nuovo le sue belle trecce, il principe si arrampicò ad esse e scivolò giù.
    Le visite si ripetettero ogni sera e alcune streghe che abitavano nel bosco si insospettirono. Una di esse, la più cattiva, volle avvertire l'orca. Andò ad aspettarla ai piedi della torre, le raccontò ciò che accadeva quando lei andava via e poi aggiunse:
    - Cara orca, sono sicura che i due giovani si preparano alla fuga.
    - Ti ringrazio - questa rispose. - Ma Prezzemolina non può fuggire perché è vittima di un incantesimo. Se non entra in possesso di tre ghiande, che sono ben nascoste nel mio orto, non potrà mai allontanarsi dalla torre.
    Prezzemolina, dall'alto della finestra, aveva ascoltato ogni cosa. Fece finta di niente. Poi raccontò tutto al principe che, in assenza dell'orca, si recò nell'orto e rubò le tre ghiande.
    Quella sera stessa, appena l’orca se ne fu andata, il giovane salì da Prezzemolina, le portò le tre ghiande e l'ultimo pezzo di corda. La scala era pronta; egli l'attaccò alla piccola finestra e in un attimo discese con la fanciulla.
    Cominciarono a correre attraverso il bosco in groppa al cavallo. Ma la strega, che li vide fuggire, corse ad avvertire l'orca. Questa, veloce come il vento, inseguì i due giovani; allora Prezzemolina, spaventata, gettò in terra la prima ghianda. Ne uscì fuori un cane bruttissimo con la bocca spalancata, che si avventò contro l’orca. Ma la vecchia conosceva tutte le perfidie; si tolse dalla tasca un grosso pezzo di carne e lo scagliò nelle fauci della bestia, che prese a divorarlo lasciandola libera.
    L'orca ricominciò a correre dietro ai due innamorati; Prezzemolina lanciò la seconda ghianda. Apparve subito un leone feroce che, con un ruggito spaventoso, corse incontro alla vecchia. Anche questa volta l’orca trovò il rimedio: soffiò su un cespuglio che subito prese fuoco. La belva ebbe paura e fuggì via.
    Sembrava tutto perduto. L'orca era vicinissima ai due giovani, pronta ad afferrarli, quando Prezzemolina gettò a terra l'ultima ghianda. Questa volta ecco venir fuori un lupo, che si buttò sulla vecchia e in un boccone la inghiottì.
    Finalmente erano liberi! Il principe condusse la fanciulla nel suo regno dove furono subito celebrate le nozze e da quel momento i due giovani vissero felici e contenti.

     

    Giambattista Basile

  • BigRoberta (IT1)BigRoberta (IT1) IT1 Post: 5,183
    leggenda bretone
    la scomparsa di Atlantide

    Moltissimo tempo fa, in un piccolo paese della Bretagna, la giovane Arnaude conduceva un'esistenza felice in compagnia dei suoi genitori.
    In una notte di tempesta, una nave che passava di lì fu travolta dalle onde del mare e andò a conficcarsi sulle rocce della costa proprio nel punto in cui sorgeva l'abitazione della fanciulla. I suoi genitori videro con preoccupazione arrivare nella loro casa uomini di cui non conoscevano neanche la lingua, ma si tranquillizzarono non appena arrivò il capo dei naufraghi, il sultano d'Atlantide, che chiese loro ospitalità.
    Il giorno dopo la notizia si diffuse nel villaggio e tutti accorsero in aiuto del sultano e del suo equipaggio. Sulla spiaggia e nella brughiera regnò per diversi giorni una grande agitazione. Si sentivano ovunque i colpi dei martelli e delle asce, l'eco dei passi degli uomini impegnati a riparare la nave danneggiata.
    Arnaude offriva ai lavoratori latte fresco, sidro, miele e frutta, che ella stessa raccoglieva dagli alberi. Con mano esperta applicava sulle ferite dei naufraghi unguenti balsamici che ne favorivano la guarigione.
    Il sultano, affascinato dalla sua dolcezza e dalla bellezza dei suoi profondi occhi azzurri, trascorreva molte ore in compagnia di Arnaude. La giovane lo accompagnava nei luoghi più belli della sua terra. Insieme visitavano i punti più nascosti della foresta, si dissetavano alle più fresche sorgenti. Arnaude insegnò al sultano il linguaggio degli uccelli che popolano ancora oggi le coste della Bretagna, gli raccontò le leggende di quei luoghi.
    Il sovrano si innamorò perdutamente di lei e volle sposarla. Nella radura dei dolmen un vecchio druido benedisse la loro unione, accompagnata da una grande festa che durò sette lunghi giorni. Durante il ricevimento, la felicità dei giovani fu però offuscata quando il mago del villaggio lesse nelle stelle dei cattivi auspici. Ma Arnaude e il suo sposo erano troppo innamorati e dimenticarono ben presto l'oscura profezia.
    Non appena la nave fu riparata, i due giovani sposi partirono felici per la terra di Atlantide. Il viaggio fu lungo ma i venti del mare benevoli gonfiavano le vele permettendo una navigazione regolare.
    Finalmente un mattino, dall'alto del pennone, Arnaude vide la sua nuova patria: una città tutta bianca che spiccava sull'intenso azzurro del mare e sulla quale dominava la meravigliosa reggia del sultano. I due giovani attraversarono le strade fra le acclamazioni della folla che salutava festosamente il rientro del sovrano.
    Iniziò per Arnaude una nuova vita. Il suo sposo faceva di tutto per renderla felice; la giovane viveva come in una favola, passando di meraviglia in meraviglia.
    Ma l'incanto stava per finire. Era una notte calma, le stelle brillavano lucenti nel cielo; i due sposi passeggiavano lungo la spiaggia, quando una voce ruppe il silenzio ricordando al sultano d'aver violato la legge divina. Egli avrebbe dovuto sposare una dea di Atlantide ma, venendo meno a quel patto, aveva attirato su di sé e sul suo popolo la maledizione degli dei.
    Il giovane sultano pregò e supplicò la voce invisibile di risparmiare il suo popolo e la sua sposa: egli era il colpevole e perciò egli solo era meritevole di castigo.
    Ma gli dei non s'impietosirono. In quello stesso momento, sotto gli occhi spaventati di Arnaude, il suolo si aprì e Atlantide, inghiottita dalle viscere della terra, fu trascinata verso le più grandi profondità insieme al suo sovrano e a tutti gli abitanti che vennero trasformati in conchiglie.
    La giovane donna, trasportata da un vento impetuoso, si ritrovò di lì a poco sulla spiaggia del suo villaggio. Gli dei le avevano concesso di sopravvivere affinché la leggenda di Atlantide non andasse perduta.
    La fanciulla ne scrisse la storia e la rinchiuse in uno scrigno insieme a una cartina di Atlantide, permettendo così alle successive generazioni di venirne a conoscenza.
    Si racconta che ogni settantacinque anni il favoloso continente riemerga dalle acque e sia visibile per la durata di un'intera notte. 
     


  • BigRoberta (IT1)BigRoberta (IT1) IT1 Post: 5,183
    leggenda olandese
    uno gnomo in giardino

    Nell'Olanda del Nord viveva un modesto mugnaio che lavorava da mattina a sera per soddisfare i bisogni della sua famiglia.
    Una volta, mentre era intento al lavoro, udì una vocina che chiedeva disperatamente aiuto. Il mugnaio si precipitò nella direzione da cui proveniva l'invocazione e, con grande stupore, vide un esserino simile a una bambola che stava per essere schiacciato dalla macina del mulino. Senza pensare ai danni che avrebbe potuto subire, immediatamente l'uomo allungò un braccio traendo in salvo la piccolissima creatura.
    Appena l'ebbe tra le mani, si accorse che si trattava di una gnoma. La minuscola donna lo guardò ancora tremante; il mugnaio l'accarezzò con la sua mano callosa delicatamente, quasi per paura di farle del male.
    La gnoma si tranquillizzò, gli sorrise e poi fuggì via, lasciando l'uomo col dubbio di aver sognato ogni cosa.
    Trascorsero solo pochi minuti quando ecco riapparire la gnoma, seguita da tanti ometti simili a lei. Il più anziano disse al mugnaio: 
    - Hai salvato la vita a mia moglie perciò noi ti saremo grati per tutta la vita. Se ci permetterai di abitare nel tuo mulino non avrai mai a pentirtene.
    L'uomo, ancora sbalordito, riuscì solo a balbettare: - Ma... sì, certamente. Restate finché volete...
    Da quel giorno la famiglia degli gnomi stabilì la sua dimora in mezzo alle scure, tiepide travi del mulino a vento.
    Gli ometti stavano attenti che non scoppiassero incendi e avvertivano il loro amico del sopraggiungere di temporali o di bufere di neve; il mugnaio poteva legare così le pale del mulino ed evitare danni.
    Se qualcuno dei familiari del mugnaio si ammalava, lo gnomo portava erbe medicinali capaci di curare ogni malattia. A volte bastava che appoggiasse la sua piccola mano rugosa sulla fronte dell'ammalato perché questo guarisse immediatamente.
    Insomma andava tutto bene al mulino e anche a livello economico il mugnaio non aveva più alcun problema.
    Il suo benessere e la sua tranquillità suscitarono l'invidia di alcuni vicini, i quali misero in giro la voce che l'uomo si dedicava alla magia nera. C'era gente che non prestava orecchio a questi pettegolezzi, ma le chiacchiere comunque continuavano alienando molte simpatie al mugnaio e ai suoi familiari.
    Nella casa di uno dei vicini più gelosi e maldicenti abitava Lisa, una bambina di undici anni, con le trecce bionde come il grano. Era una ragazzina dolce e paziente; conosceva tutto sugli animali e sulle piante e riusciva a modellare l'argilla con rara abilità. Il suo animo gentile e la sua disponibilità verso gli altri rendevano difficile credere che fosse figlia di genitori così gretti e di mentalità tanto ottusa, ma purtroppo a volte capita.
    La graziosa ragazza aveva sentito tutte le storie che circolavano nel suo villaggio sul mugnaio e sulla sua fortuna. Aveva subito capito che il benessere di quell'uomo e della sua famiglia era opera degli gnomi e non della magia nera, come gli altri volevano far credere.
    Più di ogni cosa al mondo Lisa avrebbe desiderato avere uno gnomo tutto per sé; ma questo non era possibile perché, a causa dei suoi insopportabili genitori, i magici omini non si sarebbero mai fermati in casa sua.
    Un giorno la ragazza modellò con l'argilla uno gnomo a grandezza naturale e lo portò a cuocere nel forno del vasaio, che fu felice di poterle fare un favore.
    Quando l’ebbe riavuto, Lisa dipinse il cappello dello gnomo di blu, la blusa di rosso e i calzoni di verde come gli stivali. Intagliò anche nel legno una piccola carriola e la sistemò con la statuetta nel giardino di casa. I suoi genitori risero di tutto questo, ma non osarono togliere la statua. Gli gnomi del mulino corsero subito nel giardino di Lisa a vederla, appena lo vennero a sapere. Si commossero molto e, per dimostrare alla ragazza la loro simpatia e gratitudine, ogni mese da quella volta le portarono un regalo.
    Col passare degli anni la dolcezza e la forza di carattere della giovinetta ebbero un'influenza così benefica che i suoi genitori diventarono più aperti e generosi. Come risultato e con una certa fortuna, divennero anche più ricchi.
    Ma come sempre ci furono quelli che interpretarono tutto questo a modo loro e cominciarono a dire in giro: - Chi ha una statua di gnomo nel giardino diventa ricco.
    Tutte sciocchezze, lo capirete bene. Ma idee del genere trovano terreno fertile tra la gente.
    E perciò da allora è nata la tradizione in alcune famiglie di mettere in giardino la statua di uno gnomo, con o senza carriola, in attesa della buona fortuna! 
     


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    il ratto di Proserpina
    Persefone

    La dea Demetra era particolarmente amata dagli uomini. Proteggeva il lavoro dei campi, faceva maturare i frutti e biondeggiare il grano, ricopriva la terra di fiori e di erbe.
    Ella aveva una figlia, Proserpina, una fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, con due grandi occhi fiduciosi e profondi.
    In un mattino sereno in cui il sole illuminava ogni cosa Proserpina, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati ricoperti di erba rugiadosa e di fiori multicolori. Le splendide creature ridevano, scherzavano, gareggiavano nel raccogliere rose, giacinti, viole per fame ghirlande e adornarsi le vesti.
    Ad un tratto avvenne un fatto prodigioso, un terribile boato lacerò l'aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio d'oro trainato da quattro cavalli nerissimi, un dio bello e vigoroso ma dallo sguardo triste. Con le sue braccia possenti afferrò Proserpina e la trascinò con sé incitando i cavalli a correre velocemente.
    Era Plutone il dio delle tenebre che, preso dalla bellezza di Proserpina, si era innamorato perdutamente di lei. Aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l'aveva rapita.
    La fanciulla atterrita levò in alto terribili grida, ma nessuno udì la sua voce. Implorò il padre Giove ma questi, avendo permesso il ratto, non poté aiutarla.
    I cavalli intanto galoppavano veloci. Proserpina, prima di entrare nel grembo della terra, rivolse alla madre un'ultima e disperata invocazione. Il suo grido fu così forte che montagne, boschi e prati fecero eco alla sua voce.
    Demetra l'udì dall'Olimpo. Sconvolta dall'ansia, scese volando in terra. Cercò ovunque l'adorata figlia, vagò per nove giorni e nove notti. Visitò gli angoli più nascosti e lontani senza mai assaggiare né ambrosia né nettare tanto era il suo dolore. La cercò persino negli antri marini, chiese notizie all'aurora, al tramonto, ai fiumi, ma nessuno volle dirle la verità.
    All'alba del decimo giorno, quando ogni ricerca risultò vana la dea, in preda alla più folle angoscia, interrogò il sole. - Dimmi la verità - implorò - tu, che dal cielo tutto illumini, dimmi chi l'ha rapita e in quale luogo la vedesti. 
    Il sole ebbe pietà di lei e volle rassicurarla:
    - È stato Plutone, il dio delle tenebre, a rapire la tua diletta figlia per farla sua sposa. Ora Proserpina è laggiù e con il suo sorriso rallegra quel tristissimo luogo.
    Demetra, sempre più disperata, si allontanò dall'Olimpo e si rifugiò ad Eleusi in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra che aspettava la sua protezione.
    Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori e i prati ingiallirono e infine la terra divenne brulla e riarsa.
    Allora Giove ebbe compassione degli uomini, chiamò Iride e la mandò da Demetra perché l'invitasse a tornare tra gli dei. Ma la dea messaggera non riuscì ad ottenere nulla.
    Tutti gli dei, uno dopo l'altro, andarono a supplicarla offrendole doni magnifici, ma Demetra non si lasciò convincere. Rispondeva che non avrebbe donato né messi né ricchezze ai campi se prima non avesse riavuto sua figlia.
    Giove mandò allora Mercurio dal re degli inferi affinché lo persuadesse a rendere la fanciulla alla madre. 
    Plutone non osò disubbidire al volere di Giove, ma meditò in cuor suo di non restituire Proserpina per sempre. Esortò la fanciulla a salire sul carro che doveva ricondurla sulla terra. Prima che ella si allontanasse però le offrì alcuni chicchi di melograno. Proserpina li accettò, ignorando che per un'antica legge divina i rossi chicchi di quel frutto l'avrebbero per sempre legata agli inferi.
    Insieme a Mercurio la fanciulla ritornò nel mondo della luce e si recò nel tempio di Eleusi, dove trovò Demetra. Al solo vederla la dea si trasfigurò in volto, corse incontro alla figlia, l'abbracciò teneramente. Si consolarono a vicenda, parlando a lungo tra loro.
    Allora Demetra comprese che il legame tra la sua amata figlia e Plutone era ormai indissolubile e perciò chiese a Giove di poterla avere con sé almeno per una parte dell'anno.
    Il dio dell'Olimpo acconsentì, così Demetra ritornò finalmente fra gli dei e la natura si risvegliò. 
    Da quel giorno, ogni volta che Proserpina torna nel mondo, i prati si coprono di fiori, i frutti cominciano a maturare sugli alberi e il grano germoglia nei campi. 
    È la stagione della Primavera. 
     


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     leggenda polinesiana
    la leggenda di Maui

    Sono passati ormai tanti secoli da quando il dio Ka-Le, adirato con gli uomini ch'erano diventati malvagi e crudeli, sommerse le terre, innalzandosi sopra le montagne e devastando ogni cosa col suo furore.

    Solo a un uomo Ka-Le concesse la salvezza: si chiamava Maui ed era così buono e generoso che il dio gli permise di allestire un grande vascello capace di navigare sulle acque infuriate, in attesa che l'oceano si placasse.

    Maui ottenne dal dio di portare con sé sull'imbarcazione la gente e gli animali del suo villaggio. E quando Ka-Le, implorato lungamente da Maui, fece tornare il sereno, l'uomo inviò sopra il mare un uccello dalle candide piume. Dopo poco il grazioso animale tornò, portando nel becco un ramoscello.

    Maui capì allora che la terra era riaffiorata e che di lì a poco anche la loro isola sarebbe tornata ad emergere.

    Lentamente le acque si ritirarono e il vascello potette ancorarsi nella baia. I superstiti del diluvio tornarono alle loro terre, a cui il sole pian piano ridonava la vita.

    A poco a poco tutto tornò come prima e gli uomini cominciarono a ricostruire le case e i villaggi.

    Qualche tempo dopo Maui sistemò nella sua canoa delle noci di cocco e due splendide tortore e andò in cerca della dimora del dio Ka-Le, verso il quale sentiva un debito di riconoscenza.

    Navigò a lungo sulle acque che avevano ripreso il loro colore smeraldino, salutato dagli ultimi voli dei gabbiani e degli albatros che andavano a raggiungere i loro nidi sulle scogliere.

    Ad un tratto nel cielo apparve la Luna e Maui, che non la conosceva ancora, pensò che si trattasse del volto del dio Ka-Le.

    La Luna si avvicinava sempre di più e proiettava sull'acqua cupa dell'oceano un raggio d'argento che sembrava indicare una strada. Maui pensò di seguire quella scia luminosa, per arrivare alla dimora di Ka-Le.

    Diresse la sua imbarcazione in quella direzione; remò e remò finché non approdò al regno della Luna.

    Lassù aprivano le loro corolle meravigliosi fiori che scintillavano nell'oscurità come pietre preziose.

    Maui si avvicinò alla riva, scese dalla canoa e si avviò portando con sé i doni per Ka-Le.

    Tutto intorno era soffuso di un pallido chiarore. Le colline sembravano di cristallo e qua e là occhieggiavano lucenti laghetti su cui biancheggiavano candidi cigni. Le foreste erano di smeraldo e tra gli alberi si udiva una dolce e lontana melodia.
    Maui guardava estasiato il bellissimo paesaggio e pensava con vergogna alla povertà dei doni che stava recando al re dell'incantevole regno.
    Al limitare della foresta uno stormo di stupendi uccelli si levò in volo; Maui li seguì e, dopo aver percorso lunghi argentei sentieri, si trovò sulla soglia di uno strano palazzo.
    D'improvviso una cascata di luce inondò il cielo e nello stesso istante le porte del palazzo si spalancarono e apparve la Luna. Aveva il volto di perla ed era avvolta in uno splendido manto di pizzo nero tempestato di stelle luccicanti.
    Maui, tremante di emozione, si inginocchiò davanti a lei e le disse:

    - O potente Ka-Le, sono venuto a portarti i miei umili doni e a ringraziarti di aver salvato me e la mia gente dal diluvio.

    - lo non sono Ka-Le, ma la Luna, regina del cielo notturno, e questa è la mia dimora - rispose l'astro d'argento.
    Maui si scusò e le chiese timidamente se poteva indicargli la strada per raggiungere il regno di Ka-Le.

    - È troppo tardi - rispose la Luna. E lentamente svanì insieme al suo palazzo incantato.
    Il chiarore delle prime luci del mattino si diffuse d'intorno. Maui tornò triste alla riva, salì sulla canoa e ricominciò a remare. Pensava che il dio Ka-Le non volesse mostrarsi perché non gradiva i suoi doni.
    Invece Ka-Le aveva seguito dal cielo il viaggio di Maui, ma era rimasto turbato vedendolo approdare al regno della Luna. Quand'ebbe capito il suo errore, volle aiutarlo.
    Raccolse una manciata di raggi di sole e la gettò sulle goccioline che erano ancora sospese nell'aria. Queste si impadronirono dei raggi, vi si riflessero con tutti i colori e in pochi attimi finirono di tessere una magnifica strada.
    Maui alzò lo sguardo e riconobbe, splendente di mille colori, la strada del dio. Riprese a remare con tutte le sue forze e finalmente giunse al suo cospetto.
    Il dio l'accolse con gioia e lo ringraziò per i doni, che gradì moltissimo. Poi lo salutò con dolcezza.
    Prima d'andar via Ka-Le finse di dimenticare la luminosa strada sospesa nell'aria, così Maui potette tornare senza fatica alla sua isola.
    Questa strada possiamo ancor oggi vederla a volte nel cielo quando, dopo la pioggia, le goccioline sospese nell'aria catturano i raggi del sole: si tratta della lucente strada di Ka-Le, che tutti chiamiamo arcobaleno.

  • Mela Rossa (IT1)Mela Rossa (IT1) IT1 Post: 1,407
    IL CRAP DEL DIAUL
    L'ira del diavolo nella valle del Davaglione.

    Una diffusa leggenda popolare parla dell'edificazone della chiesetta di S. Giovanni in località Davaglione a 1000 m. di altitudine sopra il paese di Montagna in Valtellina. La sua costruzione era talmente significativa che il diavolo chiese a Dio di poter contribuire. Non gli fu detto di no, ma gli venne posta una condizione assai precisa: doveva portare davanti al sagrato della chiesa, prima che venisse terminata e che suonassero le campane, il masso più grande del "gandon de Mara" e il diavolo accettò. Trovato il masso se lo caricò sulle spalle e sbuffando cominciò a scendere ma, aveva calcolato male i tempi e quando giunse non fece in tempo a posare il masso che le campane suonarono. Insomma il diavolo rimase scornato perchè aveva fatto una brutta figuraccia davanti a tutti così perse le staffe, diventò rosso dall'ira e scaglio il masso sul sentiero. Poi, un pò per rabbia, un pò per sconforto, si mise a piangere talmente tanto che le sue lacrime formarono dei ruscelli che si misero a scorrere nella valle del Davaglione ma al loro passaggio la terra si ritraeva formando delle guglie di terra che sono ancor oggi ben visibili nella valle. E il masso? Un grosso frammento che reca l'impronta del diavolo è in cima a una di queste piramidi di terra come fosse un cappello. E il diavolo? Si dice che la figuraccia fatta era tanta che da quelle parti non fece più ritorno.
  • BigRoberta (IT1)BigRoberta (IT1) IT1 Post: 5,183
    leggenda
    il mito di Perseo

    Nella notte dei tempi viveva in Argo un re, Acrisio, che aveva una figlia dolcissima, Danae. Una sinistra profezia però pesava su di lei. «Tu avrai da Danae un nipote» aveva predetto l'oracolo a quel re, «ma non sarà fonte di gioia: il bimbo crescerà, usurperà il tuo posto e ti ucciderà».
    L'angoscia di Acrisio fu tale che, per allontanare il terribile fato, rinchiuse sua figlia in una torre. 
    Ma il re non poteva lottare contro la sua sorte, né poteva lottare con Giove che, incuriosito dalla torre così ben protetta, volle andare a vedere che cosa celasse di tanto prezioso. E chi può nascondere qualcosa al dio dell'Olimpo?
    Giove vide la fanciulla mentre si pettinava i lunghi capelli neri. Si invaghì di lei e la volle per sé. Scese perciò sulla terra sotto forma di pioggia d'oro, tenue e sottile che, infiltrandosi dal tetto, dalle fessure e dalle finestre della torre, raggiunse Danae e la ricoprì di un nembo luminoso. Avvenne così che il dio dell'Olimpo si unì in matrimonio alla figlia di Acrisio.
    Dalla loro unione nacque un bimbo al quale fu dato il nome di Perseo. Il vecchio re, folle d'ira e di terrore, mise Danae e il suo bambino in una grossa cassa di legno chiusa da borchie resistentissime. L'affidò poi alle onde del mare in tempesta sicuro che l'avrebbero di lì a poco inghiottita.
    Ma Giove, affezionato alla giovane e alla sua creatura, chiese aiuto a Nettuno. Il dio del mare calmò le acque e chiamò un vento dolce e carezzevole che spinse delicatamente la cassa verso le rive sabbiose dell'isola di Serifo, deponendola infine sulla spiaggia.
    La cassa abbandonata sotto il sole d'oro attirò la curiosità dei pescatori. 
    - Com'è grande! Chissà cosa contiene! - si domandavano. 
    La considerarono un dono del mare e l'aprirono. Un grido di meraviglia si levò tra i presenti quando vennero fuori Danae e il suo figlioletto, sfiniti ma vivi.
    La donna raccontò la sua triste storia. Fu allora chiamato il re di quel luogo, il buon Polidette, che accolse i due naufraghi nella sua reggia.
    Perseo crebbe qui diventando il più forte di tutti i ragazzi dell'isola e il più bello. Era tanto robusto e intelligente da poter sicuramente affrontare qualsiasi nemico.
    Polidette cominciò a temerlo; pensò perciò di allontanare il giovinetto dal regno e gli affidò una missione pericolosissima affinché dimostrasse a tutti d'essere figlio di Giove: Perseo gli avrebbe dovuto portare la testa di una delle Gorgoni. Erano queste tre orribili sorelle, causa di terrore e di morte per il mondo. Avevano un solo occhio, che rendeva di pietra chiunque lo guardasse. Medusa, la sorella maggiore, lo teneva quasi sempre per sé e raramente lo prestava alle altre.
    Polidette, alimentando nel suo cuore la feroce speranza che il giovane Perseo perisse nel compiere l'impresa, aveva chiesto la testa di Medusa, la più tremenda, la cui morte avrebbe provocato di conseguenza la fine delle altre due. Perseo accettò senza indugio la terribile missione, dichiarandosi pronto a partire. Prima si recò sulla spiaggia e levò gli occhi al cielo implorando Giove:
    - Ti prego, aiutami a combattere il mostro.
    Il dio dell'Olimpo, udita la preghiera del figlio prediletto, mandò in suo aiuto Minerva. La dea lo guidò nel lungo viaggio verso l'occidente. Perseo passò mari e isole sconosciute, attraversò l'oceano, poi si fermò in Sicilia, come gli era stato consigliato da Minerva. Vide da lontano l'Etna, il monte dal cui cratere uscivano rosse lingue di fiamma: era l'officina di Vulcano, il dio del fuoco.
    Il giovane si avvicinò alla montagna; entrò in un corridoio sotterraneo stretto e buio, dove armi di ogni tipo luccicavano alle pareti. Il fabbro divino lavorava in un angolo alla più bella armatura che Perseo avesse mai visto. Quando scorse il giovane eroe, con tono brusco gli chiese:
    - Chi sei? Cosa vuoi? 
    - Sono Perseo, figlio di Giove. Vado ad uccidere Medusa, il flagello del mondo. Minerva, sorella mia e tua, mi ha condotto fin qui perché tu possa aiutarmi.
    A questa parole Vulcano lo guardò con simpatia e, facendogli dono di una falce di ferro affilatissima, disse: - È con questa che dovrai tagliare la testa a Medusa. Poi lo accompagnò attraverso un corridoio più lungo e più buio del primo, fuori della montagna dove ancora una volta Perseo incontrò Minerva. La dea guardò soddisfatta l'arma, che mandava bagliori alla luce del sole, e poi lo informò:
    - Se tu guardassi Medusa di faccia, il suo occhio malefico ti farebbe diventare subito di pietra. Eccoti perciò il rimedio. Prendi questo specchio: ti avvicinerai a lei camminando all'indietro e guardandola attraverso di esso. Se tu incontrassi il suo sguardo anche per un solo attimo, saresti perduto.
    Gli fece inoltre dono di un paio di calzari fatati, che avevano il potere di rendere invisibili.
    - Ogni tuo consiglio per me è un comando - la ringraziò Perseo. - Ma cosa posso fare per ricambiare i tuoi favori? 
    - Nulla - aggiunse Minerva: - Non parlare con nessuno, vai dritto per la tua strada. Mi renderai specchio e calzari quando l'impresa sarà compiuta.
    Perseo continuò il viaggio. Attraversò ancora monti, sorgenti e. mari, finché giunse alla dimora delle Gorgoni.
    Qui il buio era impenetrabile. Perseo, camminando all'indietro con lo sguardo fisso nello specchio, vide un bagliore e poi finalmente un occhio. Era azzurro con riflessi verdi ed emanava una luce intensa e fosforescente. Il giovane fu preso da un forte desiderio di voltarsi a guardare quel mostro con la testa ricoperta di serpi, i denti simili a zanne di cinghiali, le mani di rame e bronzo, le ali d'oro acuminate. Ma l'occhio era bellissimo, affascinante e attirava irresistibilmente. «Se lo guardi diventi di pietra». Le parole di Minerva ritornavano nella mente di Perseo, che continuava a camminare all'indietro. E quando il mostro si precipitò su di lui per pietrificarlo con la luce accecante dell'occhio, il figlio di Giove si fermò e trasse la falce. Con un colpo netto gli recise il capo. Le serpi emisero orribili sibili, la testa di Medusa rotolò ai piedi di Perseo. Il grande e malevolo occhio si chiuse per sempre.
    Il giovane raccolse la testa sanguinante in una magica sacca d'argento con frange d'oro, regalo di sua madre. Infilò i sandali fatati e, reso invisibile, corse via mentre le sorelle di Medusa morivano anch'esse ululando e contorcendo il viso in smorfie atroci.
    Intanto accadeva qualcosa di straordinario. Grosse gocce di sangue cadevano dalla sacca in cui era chiusa la testa di Medusa ormai priva di vita. Quel sangue si mescolava alla terra, diventava fango a poco a poco. Poi si gonfiò, si animò e si trasformò in un cavallo bellissimo, bianco e alato. Lo splendido animale nitrì forte, si avvicinò al vincitore e lo salutò in modo festoso. Perseo capì che era suo amico e lo chiamò Pegaso.
    In groppa al suo nuovo compagno volò tra le nuvole. Si recò in Sicilia dove ringraziò Vulcano. Poi si fermò a invocare la sua protettrice, Minerva, che subito apparve. L'eroe le restituì lo specchio e i calzari e, in segno di sottomissione e di gratitudine, le donò la testa di Medusa. La dea, con un atto magico, la ridusse a un bassorilievo di metallo che da quel momento è stato ben visibile sul suo scudo.
    Ma l'ora della verità era ormai giunta. Minerva gli svelò il segreto: il vincitore di Medusa era destinato a diventare padrone di una splendida città, Argo.
    Ed ecco di nuovo Perseo sul bel cavallo alato volare per cieli e cieli e in breve tempo giungere ad Argo, dove non ebbe difficoltà a farsi proclamare re. Infatti tutti aspettavano il giovane eroe, designato dal fato come loro sovrano.
    Ma anche il triste presagio si avverò. Non ebbe colpa il generoso Perseo quando, durante una gara, lanciò il disco a tale distanza che esso finì tra gli spettatori, colpendo al capo il vecchio re Acrisio.
    Così era stato scritto nel grande libro del destino.
  • Mela Rossa (IT1)Mela Rossa (IT1) IT1 Post: 1,407
    La leggenda dei Mani oscuri. (Valtellina)

    La leggenda dei Mani, che abitavano la valle omonima, é particolare. I Mani sono oscuri spiriti, forse derivanti dalle medesime divinità minori del pantheon romano, che detestavano i Cristiani perché avevano abbandonato i culti pagani. Imperversavano così su campi e alpeggi e con il loro fetido fiato li rendevano brulli e desolati, prosciugavano le mammelle degli animali e rendevano perfino difficile alle donne concepire figli. Il loro alito diffondeva ovunque morte e desolazione. Un giorno, un sant'uomo, don Sebastiano, riuscì ad esorcizzarli ma i Mani prima di andarsene chiesero al prete un luogo dove poter trovare pace e don Sebastiano non pensando alle conseguenze li mandò nella vicina Val di Togno, ma arrivati nella valle i Mani iniziarono a spargere la loro influenza malefica. Essa si fa sentire ancor oggi e si attende un nuovo don Sebastiano che abbia sufficiente coraggio per porvi fine.
  • BigRoberta (IT1)BigRoberta (IT1) IT1 Post: 5,183

    il nodo gordiano

    L'aneddoto risale già allVIII a.c. periodo in cui il popolo dei Frigi stava costituendo un proprio stato con una struttura politica, nell'entroterra dell' Anatolia(l'attuale Turchia), ma non era ancora stato eletto un re.

    L'oracolo di Telmisso (o Telmesso, l'attuale Makri), l'antica capitale della Licia, predisse che il primo uomo che fosse entrato in quella nuova città su un carro trainato da dei buoi sarebbe diventato re. Il primo a entrare fu un misero contadino di nome Gordio che, in conformità all'oracolo, fu nominato re e la cittadina prese il suo  nome che oggi corrisponde all'attuale Yassihüyük). Tale previsione fu interpretata anche mediante un segno degli dei, attraverso un'aquila atterrata sul carro stesso. Secondo lo storico Arriano, il figlio adottivo di Gordio, Mida (il noto re che trasformava in oro tutto ciò che toccava), dedicò quindi il sacro carro del padre alla divinità frigia  Sabazio (che i  Greci identificavano con  Dioniso).

    Il carro fu legato permanentemente a un palo, assicurandone la stanga con un intricato nodo di robusta corda in  corteccia di corniolo, rimanendo così il saldo simbolo del potere regale e politico dei successivi re di  Frigia ben saldo nel tempio di  Gordio, fino a quando non vi giunse Alessandro Magno nel  VI secolo a.c., epoca in cui la stessa  Frigia fu ridotta a  satrapia(provincia) dell'impero persiano.

    La profezia oracolare volle che chi fosse stato in grado di sciogliere quel nodo sarebbe diventato imperatore dell' Asia minore. 

    Dopo l'inverno 333-332 a.C., l'esercito di Alessandro Magno in espansione dalla Licia verso l'entroterra, entrò prima a Sagalassos e poi a Gordio. Qui, il condottiero provò a sciogliere il nodo, ma, non riuscendovi, decise semplicemente di tagliarlo a metà con la spada. Da questo, ancor oggi, si usa dire soluzione alessandrina per indicare la risoluzione di un problema intricato in modo netto, semplice, rapido e deciso.

    Lo storico Plutarco mise comunque in discussione la pretesa secondo cui Alessandro Magno avrebbe tagliato il nodo con un colpo di spada, e riferisce che, secondo Aristobulo di Cassandrea Alessandro lo avrebbe semplicemente sfilato dalla staffa. Ad ogni modo, Alessandro andò alla conquista dell'allora Asia conosciuta, fino al'Indo e all'Oxus,  facendo, così, avverare la profezia.


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    La leggenda del sasso delle streghe


    La leggenda del sasso delle streghe

    Nelle vicinanze del laghetto Göller è possibile osservare un grande sasso bombato, con un'incavatura sul bordo, che viene chiamato “il sasso delle streghe”. A questo masso è legata una strana leggenda.

    Attorno a questo sasso, nella notte di Santa Valburga, solevano radunarsi tutte le streghe della zona. Queste fattucchiere indossavano gonne variopinte, avevano un lungo naso a becco e quattro lunghi denti e svolazzavano nell'aria a bordo di scope fiammeggianti. Poi si mettevano a danzare attorno ad
    un grande falò, pronunciavano le loro formule magiche e discutevano di quello che avrebbero fatto l'anno successivo fino a quando, al suono delle campane del mattino, si dileguavano veloci come il vento. Nessuno poteva assistere ai loro incontri: se qualcuno veniva colto in flagrante, veniva dilaniato dalle
    streghe e lasciato in pasto agli avvoltoi.

    Una volta un pastore, mentre si trovava in un bosco vicino,venne sorpreso da un violento temporale e decise di trascorrere la notte sotto un cespuglio. A un certo punto fu svegliato di soprassalto da grandi rumori e grida. Si guardò attorno per capire da dove venisse quel baccano e vide il grande sasso circondato da una miriade di streghe, che dapprima litigavano furiosamente tra di loro e poi facevano la pace. Il pastore udì anche che le fattucchiere si davano appuntamento per la notte successiva, e decise di tornare anch'egli al sasso delle streghe. Per sicurezza portò con sé una croce benedetta e si tenne
    a debita distanza dalle maghe. Le fattucchiere però a un certo punto lo videro e si mossero per catturarlo. Ma il pastore non si fece prendere dal panico, anzi tirò fuori dalla tasca la croce benedetta e corse incontro alle streghe. Queste non si sarebbero mai aspettate una reazione simile e allora, sgomente,
    batterono in ritirata dileguandosi tra le nuvole. Subito dopo sulla zona si scatenò un furioso temporale e il pastore si mise a correre riuscendo a trovare riparo in un granaio.

    Nello stesso tempo il sagrestano e il curato di Redagno si
    stavano recando in chiesa per suonare le campane contro il maltempo, ma non ce la fecero a raggiungere la parrocchia perché il temporale era troppo violento. Tutti gli abitanti erano in preda all'agitazione. Il maltempo causò enormi danni e la mattina dopo i due uomini furono ritrovati sfiniti addosso al
    muro del cimitero. Attorno a loro tutto era devastato: il sortilegio era finito.


     
  • Mela Rossa (IT1)Mela Rossa (IT1) IT1 Post: 1,407

    LA LEGGENDA DEL PIZZO SCALINO

    Misteri del monte magico per eccellenza (leggenda)
    Testi a cura di M. Dei Cas

    Il pizzo Scalino visto dallalpe Campagneda Foto di M  Dei CasMolte leggende sono legate a luoghi magici. In Valtellina il  monte magico per eccellenza è sicuramente il pizzo Scalino, in Valmalenco. Non si tratta, con i suoi 3323 metri, di una delle cime più alte della valle, ma la sua posizione felice (un po’ distaccata, verso sud-est, dalla testata dei giganti del vallone di Scerscen e della val Lanterna) e la sua forma inconfondibile, di slanciata piramide che si erge su una base poderosa, ne fanno un punto di riferimento inconfondibile, che si impone allo sguardo da diversi punti di osservazione, non solo in Valmalenco o in Val di Togno, ma anche sul versante orobico. 
    Visto dall’alpe Prabello, che, con il rifugio Cristina, si stende proprio ai suoi piedi, il pizzo mostra tutto il poderoso e scuro contrafforte sul quale si eleva il profilo della cima. Assomiglia, quindi, ad un castello, dai bastioni imprendibili, su cui si eleva una torre maestosa. Probabilmente per questo (oltre che per il fatto di confinare con una delle valli magiche ed anche malefiche per eccellenza, la Val di Togno), che il pizzo ha dato luogo al fiorire di diverse leggende, o meglio, di diverse varianti di un’unica credenza. Questa vuole che il suo interno sia cavo, e strutturato come una vera e propria fortezza, che ospita esseri magici e riproduce la corte di un castello. Su cosa accada poi in conseguenza di ciò, le varie versioni divergono, anche se non nella sostanza. 
    Una parla di una giostra cavalleresca, che vede cavalieri d’altri tempi rinnovare la disfida nelle chiare notti d’autunno, inverno e primavera, dall’ultimo rintocco della mezzanotte fino al tramonto della luna. 
    Un’altra versione parla, invece, della lotta eterna fra due armate, l’armata nera delle tenebre e quella bianca del giorno. Secondo questa versione il pizzo Scalino è diviso, al suo interno, in due settori, che ospitano le forze avverse. Il loro scontro si ripete ogni giorno, così come ogni giorno si ripete l’esito alterno: alla vittoria dell’armata delle tenebre, che determina il calar della notte, segue quella dell’armata della luce, che riporta aurora, alba e giorno. Questa versione fa del pizzo Scalino, la magica sede della regolare ciclicità del tempo, un luogo nel quale di notte scorazzano, trionfando della temporanea vittoria, i neri cavalieri delle tenebre, di giorno, gioendo della rivincita ottenuta, gli invisibili campioni della luce. 
    Ma al pizzo Scalino è attribuita anche l’origine degli altri luoghi celebri della valle: dalle sue nozze con Valmalenco, infatti, sarebbero nate la figlia Chiesa ed i figli Caspoggio, prima, e Lanzada, poi. Molti, dunque, i motivi per fantasticare, sul far del tramonto, ai piedi del gigante del versante orientale della Valmalenco

  • Mela Rossa (IT1)Mela Rossa (IT1) IT1 Post: 1,407

    IL TANANAI

    Quando anche gli sciocchi sono indispensabili (leggenda) 
    Testi a cura di M. Dei Cas

    Lantico ponte di Villa di Tirano Foto di M  Dei CasEsiste, in molti dialetti valtellinesi, l’espressione: “Te se ‘n tananài”, che significa, più o meno, “sei uno sprovveduto, uno sciocco”. Una leggenda, diffusa a Villa di Tirano, ne spiega l’origine. Essa rimanda ad uno sfondo storico ben preciso, momento fra i più tristi della storia valtellinese. 
    Correva l’anno 1629, quando i lanzichenecchi calarono nella valle dalla val Bregaglia e dalla val san Giacomo, e, prima di proseguire per il lecchese, il milanese e Mantova, vi restarono quanto bastò per portare il terribile morbo della peste. Si trattava di quell’epidemia resa famosa dalla descrizione manzoniana ne “I promessi sposi”. Il flagello della peste, che seguì quello dei saccheggi e delle devastazioni, che sempre si accompagnano al passaggio di eserciti, fece strage anche nel tiranese, tanto da indurre molti a cercare scampo sui monti. 
    Fra i fuggiaschi che lasciarono Villa di Tirano vi erano anche tre donne, Caterina, Lucia e Giuseppina, che trovarono rifugio in un “bait” (baitello usato per la conservazione di alimenti) in località Bursée. Erano decide a rimanere lì fino alla fine della pestilenza. Ma come sapere quando il morbo avrebbe cessato di avvelenare l’aria? Con un metodo rudimentale ma sicuro: l’esposizione notturna di alcune ciambelle di segale, dette “bresciadèli”. Il morbo, infatti, aveva il potere di intaccarne rapidamente la freschezza, cosicché queste si presentavano, il mattino successivo, completamente ammuffite. Fu così che le tre donne evitarono di scendere a valle troppo presto, scampando in tal modo da morte sicura. 
    Passarono quaranta giorni, ed un bel mattino ebbero la lieta sorpresa di trovare il pane ancora intatto. Non persero quindi tempo, e presero la via del ritorno al paese, dove però le attendeva uno spettacolo terribile: ovunque, solo segni di morte. Non c’era rimasta anima viva. Non restò loro che mettersi in cammino, per cercare un luogo in cui fosse sopravvissuto qualcuno. Decisero di incamminarsi verso l’alta valle. 
    Non sembrava che a nord del tiranese le cose fossero andate meglio, ma ecco che a sant’Antonio Morignone si imbatterono in un uomo dall’aspetto veramente singolare: era piuttosto brutto, ancor più sporco e, soprattutto, ridicolmente impacciato e goffo nei movimenti. In altri tempi non l’avrebbero degnato di uno sguardo, o addirittura si sarebbero prese gioco di lui, ma, dopo quanto avevano vissuto, quest’essere sopravvissuto alla morte sembrò loro l’incarnazione stessa delle vita, della speranza in un futuro di ricostruzione e ritorno alla normalità. 
    Così, letteralmente, se lo portarono via, a Villa, caricandolo, a turno, su un gerlo che si erano portate appresso, perché non si stancasse. Gli diedero anche un soprannome, Tananài, appunto, e se lo divisero come marito. Nacquero, così, figli e figlie, che, cresciuti, si sposarono e diedero vita ad una successiva generazione. Fu così che il tiranese si ripopolò. E fu così, anche, che nacque il modo di dire: “sei un tananài”. E’ ancor viva la tradizione che raccoglie, il primo sabato di febbraio, i discendenti dei Tananài, per ricordare, pregando e festeggiando, l’antica origine comune.

  • FIONA25 (IT1)FIONA25 (IT1) IT1 Post: 10,665

    Uno pro puncto caruit Martinus Asello (letteralmente "Per un unico punto Martino perse Asello") è la frase latina corrispondente ad un modo di dire molto diffuso nella lingua italiana e radicato nella memoria orale: Per un punto Martin perse la cappa.

    La frase, quasi proverbiale, vuole significare che un errore riguardante un particolare apparentemente di scarsa importanza comporta talvolta conseguenze disastrose. Nella locuzione in italiano la "cappa" cui ci si riferisce è una sorta di mantello, simbolo della carica di priore di un monastero, perdere la quale significa rimozione dalla carica o mancato conseguimento della stessa.

    Secondo la tradizione, che risale al XVI secolo, Martino era abate del monastero di Asello. Volendo abbellire la sua abbazia, decise di apporre sul portale principale un cartello di benvenuto che recitasse: Porta patens esto. Nulli claudatur honesto, cioè"La porta resti aperta. Non sia chiusa a nessun uomo onesto"o, in un'altra versione, Porta, patens esto. Nulli claudaris honesto, cioè"Porta, resta aperta. Non essere chiusa a nessun uomo onesto".Il messaggio esprimeva generosità e carità davvero cristiane. L'artigiano incaricato del lavoro (o, in altre versioni, forse lo stesso abate), però, complice probabilmente la stanchezza o la distrazione, sbagliò la posizione del punto e scrisse: Porta patens esto nulli. Claudatur honesto, cioè"La porta non resti aperta per nessuno. Sia chiusa all'(uomo) onesto".ovvero, nell'altra redazione: Porta, patens esto nulli. Claudaris honesto, cioè"Porta, non restare aperta per nessuno. Resta chiusa per l'uomo onesto".I guai che tale errore procurò a Martino non si limitarono alla figuraccia. La notizia di un messaggio così contrario alla caritas christiana, infatti, raggiunse le alte sfere ecclesiastiche (e forse lo stesso Pontefice), le quali decretarono l'immediata sollevazione dell'abate, privandolo della cappa (cioè del mantello) che di tale dignità era simbolo. A ricordare l'errore di Martino provvide il suo successore, che fece correggere il cartello inospitale completandolo con la frase: Uno pro puncto caruit Martinus Asello (o Ob solum punctum ...).


  • FIONA25 (IT1)FIONA25 (IT1) IT1 Post: 10,665

    14. La strada fangosa

    Una volta Tanzan ed Ekido camminavano insieme per una strada fangosa. Pioveva ancora a dirotto.

    Dopo una curva, incontrarono una bella ragazza, in chimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare la strada.

    «Vieni, ragazza,» disse subito Tanzan. Poi la prese in braccio e la portò oltre le pozzanghere.

    Ekido non disse nulla finché quella sera non ebbero raggiunto un tempio dove passare la notte. Allora non poté più trattenersi. «Noi monaci non avviciniamo le donne» disse a Tanzan «e meno che meno quelle giovani e carine. È pericoloso. Perché l’hai fatto?».

    «Io quella ragazza l’ho lasciata laggiù» disse Tanzan. «Tu la stai ancora portando con te?»

    storia zen

  • BigRoberta (IT1)BigRoberta (IT1) IT1 Post: 5,183
    La fenice che viveva sulle montagne di Kaf regnava su tutti gli uccelli e conosceva tutto, ma per molti anni non fu vista e gli uccelli persero la speranza..un giorno in un paese lontano, qualcuno trovò piume di fenice e tutti gli uccelli del mondo andarono a cercarla a Kaf...in questo viaggio c'erano valli con molteplici tipi di prove..
    alcuni uccelli a causa della loro avidità, alcuni a causa della stanchezza, altri perchè avevano perso la speranza 
    rinunciarono e tornarono indietro..alcuni scomparvero e se ne andarono..rimasero solo 30 uccelli.. passarono dalla valle della fede per confrontarsi..erano lì per affrontare i loro problemi più profondi..un dolore più grande di tutto il dolore fisico (l'angoscia) avrebbe albergato in loro, o sarebbe sparito in quella valle. Alcuni hanno visto la solitudine nel profondo dei loro cuori..alcuni hanno visto l'ingiustizia che avevano commesso..e altri hanno visto le centinaia di frasi non dette, rimaste dentro di loro..questi uccelli capirono che loro stessi erano una fenice e che il viaggio che avevano fatto era speciale..hanno sofferto molto per attraversare la valle..ma dopo tutto ne era valsa la pena..per conoscere se stessi..per affrontare se stessi..per continuare il viaggio sapendo qual è la cosa che ha più valore nella vita. La fenice rinasce ogni volta dalle sue ceneri..non importa quanto bruci..non importa quanto sia ferita..si rialza ancora e ricomincia da capo..
    pezzo tratto dal libro immaginario di Sanem..la fenice e l'albatros

  • Candy.. (IT1)Candy.. (IT1) IT1 Post: 2,246


    La leggenda della testa di moro

    I vasi in ceramica a forma di testa di moro sono così diffusi in Sicilia da essere divenuti uno dei simboli rappresentativi dell’isola. Questi particolari oggetti adornano i balconi delle abitazioni e spesso sono utilizzati come elemento decorativo dei salotti dei siciliani e dei turisti che li acquistano come souvenir presso le varie botteghe artigiane di Caltagirone. La singolare foggia di questi vasi (o “graste” per usare il dialetto siciliano) deriva però da una macabra leggenda, ambientata a Palermo, che non tutti conoscono.

    Si racconta che intorno all’anno 1100, periodo della dominazione araba in Sicilia, alla Kalsa, antico quartiere della città di Palermo, vivesse una bellissima fanciulla. La ragazza trascorreva le sue giornate quasi esclusivamente in casa, dedicandosi alla cura delle piante che ornavano il suo balcone. Un giorno, passando per la Kalsa, un giovane moro vide la bella ragazza intenta ad annaffiare i suoi fiori, e subito se ne innamorò. Decise di volerla tutta per se e, senza indugio, entrò in casa della ragazza per dichiararle il suo amore.

    La fanciulla, colpita da quell’ardito e intenso sentimento, ricambiò l’amore del giovane, ma quando seppe che questi l’avrebbe presto lasciata per tornare nelle sue terre in Oriente, dove l’attendevano moglie e i figli, approfittò della notte e lo uccise mentre giaceva addormentato. La ragazza gli tagliò la testa, e con questa fece un vaso dove piantò una pianta di basilico. Infine lo mise in bella mostra fuori nel balcone, affinché l’uomo rimanesse per sempre con lei.
    Il basilico crebbe rigoglioso, grazie alle lacrime che la fanciulla vi versava giornalmente, destando però l’invidia di tutti gli abitanti del quartiere che, per non essere da meno, si fecero costruire dei vasi di terracotta a forma di testa di moro.

  • kriss47 (IT1)kriss47 (IT1) IT1 Post: 5,787
    modificato 25.08.2020
    Cataleya (IT1) ha detto:
     La leggenda della testa di moro

    I vasi in ceramica a forma di testa di moro sono così diffusi in Sicilia da essere divenuti uno dei simboli rappresentativi dell’isola. Questi particolari oggetti adornano i balconi delle abitazioni e spesso sono utilizzati come elemento decorativo dei salotti dei siciliani e dei turisti che li acquistano come souvenir presso le varie botteghe artigiane di Caltagirone. La singolare foggia di questi vasi (o “graste” per usare il dialetto siciliano) deriva però da una macabra leggenda, ambientata a Palermo, che non tutti conoscono.

    Si racconta che intorno all’anno 1100, periodo della dominazione araba in Sicilia, alla Kalsa, antico quartiere della città di Palermo, vivesse una bellissima fanciulla. La ragazza trascorreva le sue giornate quasi esclusivamente in casa, dedicandosi alla cura delle piante che ornavano il suo balcone. ................................................................................................................................................................ 

    Sono fra quelli che non conoscevano la leggenda relativa alle "teste di Moro", le ceramiche così familiari a noi siciliani.
    La lettura di tale leggenda mi ha riportato alla memoria una novella del Decamerone il cui titolo è "Lisabetta da Messina". Nonostante le differenze, le somiglianze dei due racconti sono tali da farmi ipotizzare che la favola siciliana non sia che una rielaborazione dell'altra. Mancano nel testo di Boccaccio i due elementi passionali che fanno della ragazza siciliana la protagonista assoluta: gelosia e vendetta. Nè mi meraviglia. Sono molte le storie siciliane che si nutrono di amore e morte, di passione e vendetta, come ci raccontavano una volta i cantastorie girovaghi delle fabule siciliane. E' assurdo pensare che sia stata compiuta una rielaborazione della storia di Boccaccio sulla base della tradizione novellistica popolare siciliana? 
    E tuttavia sono più numerose le somiglianze: il nucleo narrativo, l'amore impossibile, l'uso della pianta per nascondervi la testa dell'amato, la scelta del basilico da seminare e di cui prendersi cura.

    Mi piacciono le storie, ma mi piace ancora di più  "leggervi" quello che rappresentano.  
     
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  • Candy.. (IT1)Candy.. (IT1) IT1 Post: 2,246

    Trinacria, due leggende all’origine dell’antico nome della Sicilia

     Raffigurata sullo stemma della Regione, sul suo letto di colori (il rosso e il giallo), la Trinacria è conosciuta in tutto il mondo come il simbolo per eccellenza della Sicilia. Curiosa e stravagante, questa effigie è, tuttavia, avvolta dal mistero e il suo legame con la terra siciliana affonda le radici nella mitologia più che nella storia. Sono ben due, in effetti, le leggende che riguardano la Trinacria e la investono di significati misteriosi e di fantasia.

    Com’è ben risaputo, lo stemma della Sicilia è un’immagine composita, ricca di diversi elementi che si fondono l’uno con l’altro per creare una simbologia univoca. Al centro dell’immagine spicca immediatamente la testa di Medusa, da cui si dipartono dei lunghi capelli fatti di serpenti intrecciati a spighe di grano. Dal centro verso l’esterno, poi, tre gambe si piegano al livello delle ginocchia, restando sempre ben collegate alla testa della Medusa.

    Medusa: la terribile Gorgone

    Ed è proprio questo elemento, il capo di Medusa per l’appunto, che collega la Trinacria a questa celebre e conosciutissima figura mitologica. Medusa è, infatti, uno dei personaggi più famosi della mitologia greca, da cui viene tratteggiata come un essere terrificante e implacabile. Figlia di Forco, divinità del mare, e Ceto, mostro marino dalla storia tormentata, Medusa è una delle tre Gorgoni, la sorella non immortale di Steno ed Euriale. Le Gorgoni erano da tutti temutissime per le loro terribili capacità. Esse erano in grado, infatti, di tramutare in pietra qualsiasi uomo avesse l’ardire o la sfortuna di guardarle negli occhi.Abitanti delle Esperidi, avevano zanne da cinghiale, mani di bronzo e serpenti al posto dei capelli. Non soltanto il loro sguardo era letale, bensì anche il loro sangue possedeva delle doti magiche strabilianti. Se esso sgorgava dalla vena sinistra, aveva la capacità di uccidere chiunque in un momento, mentre il sangue della vena destra poteva riportare in vita i morti. Inviata in Etiopia da Poseidone, per devastare quel Paese governato dal re Cefeo, Medusa fu alla fine uccisa da Perseo.

    La Sicilia e i tre promontori

    Alla simbologia della Medusa si mescolano, nel tempo, anche rimandi più vicini alla Sicilia, come le spighe di grano tra i capelli della Gorgone. Le spighe sono un chiaro riferimento all’abbondanza e alla fertilità di questa terra, considerata dagli antichi Romani come il granaio dell’Impero. Le tre gambe rappresentano, invece, i tre promontori più estremi dell’Isola: Capo Lillibeo, vicino a Marsala, Capo Passero, a sud oltre Siracusa, e Capo Peloro a Messina.roprio per questa ragione, probabilmente, il termine Trinacria deriverebbe dalla parola greca composta “Trikeles”, vale a dire “i tre promontori”.  Persino nell’Odissea la Sicilia farebbe la sua comparsa con le parole di Omero che le darebbe l’appellativo di “Trinax”, letteralmente “terra e tre punte”.

    Perch il simbolo della Trinacria rappresenta la Sicilia -


  • Candy.. (IT1)Candy.. (IT1) IT1 Post: 2,246

    Trinacria e la danza delle ninfe

    Una seconda e antica leggenda, ancora, ricondurrebbe la nascita della Sicilia alla danza di tre ninfe. Il mito narra che queste tre splendide creature erano solite danzare su e giù per il mondo, prendendo da ogni luogo che attraversavano terra, sassi e frutti maturi. Un giorno, tuttavia, si ritrovarono in una zona in cui il cielo era particolarmente azzurro e limpido. Qui la danza si fece più armoniosa e allegra, finché le tre ninfe cominciarono a gettare in mare tutto ciò che avevano raccolto per il mondo.

    In quel momento il mare gorgogliò e dalle onde cominciò a emergere una terra luminosa e fertile, ricca e profumata. Inoltre, nei punti in cui le ninfe avevano dato vita a quella danza e gettato i loro doni, sorsero tre monti e la terra unita da questi ebbe, e ha tuttora, la forma di un triangolo. Ancora una volta, pertanto, la Trinacria sarebbe riconducibile ai tre promontori siculi, legati al vocabolo latino “triqueta” (“i tre vertici”).

    La Trinacria sarebbe, dunque, un simbolo strettamente legato alla Sicilia. E, nonostante ciò, forse non tutti sanno che esso è riconducibile più anticamente al Peloponneso, dove le gambe piegate erano incise sugli scudi dei guerrieri in segno di forza. Un’altra curiosità riguarda, infine, l’isola di Man, situata nel Mar d’Irlanda, luogo in cui nel 1072 i Normanni “esportarono” la simbologia della Trinacria, presente anche negli stemmi delle dinastie degli Stuart d’Albany in Inghilterra, dei Rabensteiner di Francia, degli Schanke di Danimarca, dei Drocomir di Polonia e, per finire, nello stemma di Gioacchino Murat, re delle Due Sicilie all’inizio del 1800.

    <3

  • damadeisogni (IT1)damadeisogni (IT1) IT1 Post: 149
    modificato 10.01.2021

    Il Lupo e la Farfalla:
    "Si racconta che si catturarono al primo sguardo.
    Lui forte, temerario e ipnotico.
    Lei leggiadra, tenera e ladra di attimi.
    Con i suoi colori riuscì a dipingere la sua vita, gli regalò l'arcobaleno che teneva tra le ali.
    Lui le insegnò la forza e lei gli donò la leggerezza.
    Si dice che nessuno riuscisse a distrarli l'uno dall'altra.
    Il sole faceva brillare il manto di lui, il vento sollevava lei e le sue danze.
    Sempre insieme contro ogni regola della natura che voleva lui indomito cacciatore e lei gioia di ogni sguardo ammaliato.
    La leggenda si racconta ancora attorno ai fuochi scoppiettanti, di come lei concluse la sua breve vita addormentandosi nei suoi ricordi, e di come lui ancora si senta ululare alla luna aspettando quel vento che la riporterà da lui...."

    Nn sò se è la sezione adatta, mi piaceva troppo :)  <3
  • Candy.. (IT1)Candy.. (IT1) IT1 Post: 2,246
    La medicina del lupo secondo gli indiani dAmerica
    La medicina del lupo è la medicina dell’anima. Non ha nulla a che vedere con terapie alternative né con altri derivati. È stata chiamata così per via degli indiani d’America, i quali ritengono che l’osservazione attenta dei lupi e dei loro comportamenti aiuti a guarire interiormente.Gli indiani d’America vedono nel lupo un animale sacro, un vero e proprio totem. Attraverso le generazioni questo popolo ha accumulato conoscenze sul comportamento di questo animale, fino a venerarlo. Considerano l’imitazione del lupo un cammino di crescita, in grado di sanare ferite e di andare avanti anche di fronte alle avversità. In questo articolo vi parliamo della medicina del lupo.In Occidente è poco conosciuta. Nella nostra cultura, di fatto, questi animali vengono trattati in modo poco rispettoso. Sono sempre stati dipinti come antagonisti in molti racconti infantili, nei quali rappresentano sempre degli esseri malvagi. Esiste poi il mito dell’uomo lupo, feroce e pericoloso. A seguire vedremo che in realtà non è affatto così e, anzi, potremmo imparare molto da questa specie.Il lupo è un animale con un comportamento ben definito, o “ritualista”, in diversi aspetti. Il primo fra tutti è quello gerarchico. La loro organizzazione interna è molto rigida. Il maschio e la femmina alfa sono i leader indiscussi del gruppo. A differenza di altre specie, il suddetto leader non è il più grosso o il più combattivo, ma il più intelligente e abile.

    Il lupo non è solitario né selvaggio, come ci hanno sempre fatto credere. Sono animali estremamente socievoli, sempre in gruppo. Se compiono qualche azione in solitaria, è solo in funzione del branco. Combinano in modo equilibrato la loro individualità con il senso comune. Ricorrono alla violenza solo in casi estremi e preferiscono evitare il combattimento, o quanto meno concluderlo il prima possibile. I lupi non mordono il collo agli altri lupi; in altre parole, non uccidono altri membri della stessa specie.

    Gli indiani d’America affermano che i tre grandi poteri del lupo sono l’agguato, l’invisibilità e la protezione familiare. Questi animali non fanno ostentazione della loro fierezza o del loro potere. Osservano, analizzano senza farsi notare. Con il muso a terra, calcolano. Sono invisibili ai nemici perché sanno “scomparire”. Attaccano solo quando è necessario e quando hanno un piano di azione ben preciso in mente.Per i nativi americani, il lupo è una guida. Abbiamo tutti qualcosa proprio del lupo, e ci sono momenti nella vita in cui questo spirito coraggioso, saggio e prudente si risveglia. In questo consiste la medicina del lupo: nell’accudire la forza interiore e la capacità strategica per affrontare le sfide della vita.Gli indiani d’America ritengono che ci siano momenti della vita nei quali lo spirito del lupo diventa un potente alleato. Si tratta di quelle circostanze in cui emerge il nostro lato coraggioso, leale, generoso e libero. Lo spirito del lupo è indomabile e coraggioso. Per questo ci aiuta quando decidiamo di fare qualcosa che ci hanno vietato senza una giusta motivazione.

    La medicina del lupo consiste nel coltivare e permettere che questa forza indomabile emerga. Gli indiani d’America pensano che i lupi e le streghe vadano a braccetto e che si sentano più a loro agio al buio. Significa che il nostro lato più magico e indipendente sorge quando non siamo esposti agli sguardi altrui. Solo in questa situazione troviamo le migliori soluzioni ai nostri problemi e scopriamo percorsi che prima non vedevamo.

    Secondo le tradizioni, il primo modo per risvegliare il lupo che abbiamo dentro è rimanere vigili verso i nostri sogni. La medicina del lupo è soprattutto un rincontro con la forza della nostra essenza. La nostra forza interiore nascosta si esprime attraverso i sogni per questo bisogna conoscere il mondo onirico per conoscersi meglio e recuperare il valore del proprio spirito.

    Allo stesso modo, è fondamentale dedicare del tempo a osservare se stessi. Cercare di vedersi come spettatori del proprio agire. Osservarci, senza giudicarci, ma cercando di vedere gli elementi di ostacolo che, dal nostro punto di vista abituale, facciamo fatica a vedere. Cosa tiene ancorato il nostro spirito? Paure? Comandi? Esperienze passate?

    Poi dobbiamo agire. Se desideriamo fare qualcosa, non dobbiamo aspettare che le circostanze siano favorevoli. Possiamo iniziare subito a lavorare per ottenere quello che desideriamo, per affrontare il presente con determinazione, generosità e lealtà. Secondo la medicina del lupo, se adottiamo questo atteggiamento, lo spirito del lupo si risveglierà guidandoci.

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